La Repubblica, martedì 30 aprile 2002

IN STAZIONE UN PROGETTO CLANDESTINO

LUCA BELTRAMI GADOLA

"PARTIRE è un po' morire".Un verso può fare la fortuna di un poeta ma Edmond Haraucourt per questo verso della sua Chanson de l'Adieu non è mai ricordato. Invece quante citazioni, quanti calambours, quante manipolazioni: un primato da Guinness. Ognuno ha la sua e io ne appiccico una a GrandiStazioni S.p.A.: "Partire è un po' comprare".
GrandiStazioni è una costola, in parte privata, delle Ferrovie dello Stato ed ha come missione la trasformazione delle più importanti stazioni della rete ferroviaria. A Roma è già tutto fatto e Termini ha cambiato faccia: in meglio.
Ora sembra arrivato il momento per Milano. E forse il problema si complica: un edificio molto particolare e una città molto diversa. Il progetto della Stazione Centrale di Stacchini non è di facile lettura e fortunatamente le manipolazioni successive non ne hanno quasi alterato l'aspetto e il layout .
Roma non è certo Milano per l'uso che i romani fanno degli spazi pubblici e per il clima, che induce assai di più a "flaner". Più che non a Roma qui si assiste ad una lenta trasformazione dei grandi spazi commerciali in luoghi di socializzazione.
Le piazze storiche sembrano sbiadire a favore di Bonola e Fiordaliso che ormai competono direttamente con vie commerciali come Corso Vittorio Emanuele.
La strada imboccata da GrandiStazioni va in quella direzione: trasformare la Centrale in un grande luogo di socializzazione come ricaduta di attività commerciali ma anche viceversa.
Quel che c'è oggi alla stazione è sotto gli occhi di tutti e come si sia arrivati all'orrore odierno è un mistero. I denari cavati dalla vendita degli spazi pubblicitari non sono certo quelli che hanno alleviato la voragine dei conti delle ferrovie, eppure lo scempio ci è stato imposto.
I chioschi delle bibite e le edicole sono uno schiaffo alla Milano del "design". Della qualità dei cibi non dico. Dunque bene, si ricominci dal progetto Stacchini e si faccia pulizia. Ma come? Il nuovo progetto c'è, ma è quasi clandestino: pochi appassionati se ne passano una copia con preghiera di certa restituzione. L'ho avuta anch'io per le mani per qualche giorno, identica a quella sulla quale ha espresso le sue osservazioni la Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio di Milano, che ha chiesto sostanzialmente di eliminare quasi tutti i soppalchi previsti nella Galleria delle Carrozze e negli ambienti di percorrenza del pubblico. In ogni modo dalle poche tavole a disposizione, dalla relazione e dal sito Internet non si cava molto se non una notazione allarmante per i viaggiatori: oggi tra la stazione della MM e i treni si devono percorrere circa 150 metri, domani saranno tortuosamente 300. Tanti e tutti in omaggio ai privati investitori e alla tecnica da autogrill: tra il banco del bar e l'uscita un labirinto tra provole, oggetti inutili, gadgets e accessori per auto.
Siamo l'unico paese civilizzato in cui un'opera di tanta importanza, 83 milioni di euro di investimenti, 220 mila metri quadrati di superficie, di fronte ad una piazza appena risistemata, è fatta senza che la commissione urbanistica, la commissione edilizia, il consiglio di zona e, perché no, il consiglio comunale esprimano il loro parere. Non è richiesto, non è dovuto. Questa è la DIA, la nuova norma berlusconiana per fare belle le città. Forse una piccola mostra all'Urban Center su questo progetto sarebbe un atto dovuto ai cittadini milanesi. In un paese civile, in una città migliore.