Repubblica, 13 maggio 2003
LUCA BELTRAMI GADOLA
“Milano è una città che sembra perso il
coraggio dei grandi progetti.” Questa frase dell’architetto Mario Botta
potrebbe essere il commento della serata sulla trasformazione della stazione
Centrale la settimana scorsa ali Ordine degli architetti. "Un progetto
difficile - continua Botta - perché siamo di fronte a una sorta di originario
fuori scala rispetto alle funzioni,con un contenuto celebrativo superiore al suo
utilizzo, ma qualunque progetto non è il soddisfacimento tecnico di una fuione
ma di un’aspirazione. Il progetto è l’espressione del proprio tempo e forse
oggi ci vorrebbe un grande progetto che entrasse dentro. La mancanza di
coraggio nel progettare è anche figlia della mancanza di coraggio e di
professionalità dei committenti. Quando si mette mano ad un progetto che
interviene sull’esistente bisogna avere la cultura della memoria che non è la
cultura della nostalgia”. Ci vuole coraggio e, dice Gae Aulenti che progettò
Piazza Cadorna “il coraggio è il contrario della mimetizzazione. Andare alla
Fiera o alla stazione Centrale non e la stessa cosa. L’idea della
trasformazione è accettabilissima, si modificano le funzioni e dunque può
cambiare tutto ma si deve integrare 1’esistente, non svenderlo. Il coraggio non
è temerarietà. Oggi siamo invasi da progetti alla maniera di”, che sono il segnale della mancanza d’idee e di
pensiero oltre che di coraggio. Si teme la polemica? Un vero processo di
progettazione non deve temerla soprattutto quando 1’architettura sia fatta di
figure e non di immagini”. Anche per Mario Bellini, sua la Fiera di viale
Scarampo, il coraggio entra in gioco, soprattutto in un progetto che si metta
in rapporto con una struttura così forte come quella della Centrale.
“Ci vuole un grande gesto con un sentimento risarcitorio verso la modernità e l’avanguardia. Un gesto - dice - che generi un differenziale, supportato da una committenza che sappia quello che vuole per una delle porte d’accesso alla città”. Ho chiesto ai tre architetti amici, impegnati oggi e ieri in grandi progetti milanesi e del tutto all’oscuro del progetto di ristrutturazione della stazione Centrale, di parlarmi del coraggio come categoria di pensiero nel pensiero che pensa architettura. L’assonanza era quasi inevitabile e dunque ne sono sempre più convinto: il poco coraggio è una chiave di lettura corretta del progetto di Grandi stazioni per 1a Centrale. Ma che questi tre amici ponessero tutti l’accento sul ruolo fondamentale del committente è stata invece una piccola sorpresa e allora l’urgenza di una domanda: dove era la committenza in quella serata all’Ordine degli architetti? Ma soprattutto in questo caso chi è, o dovrebbe essere, il committente? Nei documenti è chiaro, è Grandi stazioni. Ma non dovrebbe essere così.
Il committente giusto è la città, quella che
ai tempi dibatté il progetto dell’architetto Stacchini, quella che pensò di
abbatterla nel dopoguerra e non lo fece, che insorse in sua difesa
dall’oltraggio dell’Alba di Luce, che la considera uno dei suoi simboli. Milano
è il committente, e per la città i suoi attuali amministratori, che forse non
ne sono gli interpreti veri, in preda oggi al parossismo del fare più cose
grandi, che non grandi cose e in fretta: le urne sono sempre all’orizzonte. Ma
come dice Mario Botta: “I tempi della politica non sono quelli
dell’architettura”.