Casabella, n. 710, aprile 2003

 

Editoriale

 

Supermarket Milano Centrale

Marco Biraghi

 

A Milano la cultura architettonica vive anni difficili. Troppo spesso frustrata nella possibilità di veder realizzate le proprie proposte, quanto frequentemente incapace di elaborare progetti all’altezza di una metropoli che si vorrebbe “europea”, si presta con sempre maggior disinvoltura a operazioni di “trasformazione” a dir poco insidiose. Ovvio come le sue responsabilità vadano condivise con una più generalizzata crisi istituzionale e economica, e con una committenza latitante o dai limitati orizzonti – classi politiche e imprenditoriali scarsamente “illuminate”. Questo indubbiamente offre oggi Milano: poche “idee” di città, pochissime o nessuna architettura che sappia “far epoca”,  e sempre più occasioni d’intervento ad alto tasso speculativo. Non c’è da stupirsi allora che chi è in grado di farlo le colga. Ma la scarsità (o l’inefficacia) dei “mezzi” non giustifica l’ambiguità –quando non addirittura la dannosità– dei fini. Grande città tra le più resistenti al mondo al cambiamento cosciente, programmato, pianificato, Milano dal dopoguerra ad oggi è mutata –e continua a mutare– in modo discontinuo, sotterraneo, “strisciante”; mossa da logiche autoreferenziali, da interessi privati, da strategie circoscritte, di sovente cambia volto pur mantenendo lo stesso, così come altrettanto spesso lo mantiene pur modificandolo da cima a fondo. Se tutto ciò presenta da un lato il vantaggio –con l’esclusione di ogni controllo “centrale”, “totale”– di lasciare aperti spazi alle iniziative (peraltro, molto sporadiche) di una pluralità di soggetti (pur sempre ristretta, comunque), dando voce a diverse “città” all’interno della città, dall’altro favorisce e determina la pulviscolarizzazione di qualsiasi abbracciabile senso prodotto da tali interventi, e di conseguenza la perdita di ogni riconoscibile “identità” cittadina. Ma questa –si dirà– è la storia delle città e delle società occidentali nella loro fase attuale, e grandissimi rischi corre chi si provi a interromperne il corso.

E tuttavia, nel concreto: Milano, Stazione Centrale, progetto di “trasformazione” degli spazi interni originariamente pensati da Ulisse Stacchini in forma di monumentali “terme romane”. Il progetto (elaborato dallo Studio Tamino, promosso da Grandi Stazioni S.p.A., capitale suddiviso tra Ferrovie dello Stato, Benetton, Pirelli, Caltagirone e Sncf) prevede in particolare una pesante “riqualificazione” dell’atrio delle biglietterie e della galleria di testa, che verranno in vario modo svuotate, soppalcate, traversate da ascensori e tapis roulants e disseminate a vari livelli di attività commerciali. Nel complesso, un enorme shopping mall capace di ospitare qualcosa come 120 negozi, oltre a ristoranti, bar, snack-bar e internet-points. Nell’eufemistico linguaggio promozionale con cui viene presentata l’iniziativa, un «progetto di recupero e adeguamento funzionale», un «restyling all’insegna di sicurezza, servizi, comfort, interscambio, cultura, shopping». Naturalmente non mancheranno anche notevoli ricadute positive sugli utenti, tra cui –novità degna di nota, “fiore all’occhiello” trionfalisticamente sbandierato– i nuovi servizi igienici, che saranno «puliti e disinfettati». Insomma, nella grande opera di “riorganizzazione” della Stazione ci sarà spazio per tutto, compreso, almeno in una versione del progetto (difficile però dire se definitiva, vista la sua natura camaleontica, programmaticamente sfuggente a ogni aperto confronto) un “utilissimo” eliporto collocato sul tetto dell’edificio. In compenso verrà chiusa la galleria delle carrozze, da dove attualmente si entra (con un conseguente allungamento dei percorsi di raggiungimento dei treni), ma per ricavarne una «grande e prestigiosa piazza coperta attrezzata».

Interrogarsi sulla reale necessità di un simile intervento –sulla sua effettiva utilità per il passeggero, oltreché per il potenziale acquirente– risuona evidentemente come una patetica ingenuità, a fronte del dato che stima in più di 100 milioni il numero dei passeggeri (ossia dei potenziali acquirenti) che di lì transitano annualmente. Né vale invocare in difesa dell’edificio il vincolo legislativo che lo dovrebbe proteggere, dal momento che la stessa Soprintendenza si è limitata a osservazioni marginali. La trasformazione di una stazione ferroviaria in supermarket, del resto, non è che la conseguenza diretta e coerente della più generale trasformazione dell’intera società nell’epoca dell’economia di (super)mercato. E se questa è la dottrina oggi largamente vigente in tutti i settori, allora non vi è da lamentarsi –e anzi, bisogna essere grati a chi se ne “incarica”– che anche le grandi infrastrutture vengano adeguate alle nuove esigenze di “noi consumatori”.

Con tutto ciò, rimane ancora qualcosa di cui non esser soddisfatti (e presumibilmente neppure rimborsati): il destino dell’edificio di Stacchini. Sia chiaro: nessuna volontà di scatenare l’ennesima crociata contro i “manomissori del Testo”, a favore dell’“integrità” della sua immagine, dell’“originalità” della sua materia (benché sia quantomeno curioso che proprio il “concept” della nuova Stazione tenti di accreditarsi come paladino di tutto ciò: «Le opere di progetto comprenderanno preliminarmente interventi finalizzati a liberare dalle superfetazioni e dai box commerciali e di servizio posti in mezzo alla galleria centrale e nei locali laterali che costituiscono un elemento di intralcio fisico e visivo, per avviare un processo di restauro e ripristino dell’architettura esistente». Ma non era proprio il «cosiddetto “restauro” la peggiore delle distruzioni»?). Dunque: nessun atteggiamento nostalgico nei confronti del “buon tempo andato” e dei suoi frutti, tanto più poi che la Stazione Centrale ha subìto nel corso degli anni una tale quantità di interventi (molti dei quali, anche recenti, di massiccia “marketizzazione”), da rendere assolutamente risibile –oltreché stupido– qualsiasi richiamo alla sua configurazione “prima”. Quanto messo in questione dalle “trasformazioni” progettate da Grandi Stazioni S.p.A., con la creazione di «spazi totalmente reinventati», è comunque ben altro: non tanto il rispetto o meno di un singolo infisso o mosaico, e neppure di significative parti di edificio –e con ciò anche la salvaguardia della loro esistenza–, quanto piuttosto il senso complessivo dell’opera. E ancora di più: il senso stesso dell’architettura nell’accezione più allargata. Anche solo concepire il baratto di grandiosi saloni, di dimensioni certo smisurate ma proporzionate, rivestiti di marmi preziosi e riccamente decorati, con un dedalo di corridoi controsoffittati alti 3,50 m e con «spettacolari terrazze» che tagliano in due (o in tre? o in quattro?) le grandi arcate di accesso ai treni, significa infatti ben altro che compiere una vantaggiosa (?) operazione commerciale: equivale ad avere in spregio non soltanto una delle architetture milanesi più significative del suo periodo (e addirittura, la più bella stazione in assoluto, secondo Aldo Rossi) ma l’architettura in quanto tale. Significa produrre una pessima architettura.

Naturalmente è lecito dubitare anche del valore estetico-architettonico dell’opera di Stacchini, accusando di tronfio monumentalismo, di cattivo gusto, di mancanza di funzionalità, di diseconomicità il suo stile “assiro-ambrosiano”. Ma non si può mettere in discussione la sua natura di opera “compiuta”, il suo carattere unitario. Persino la netta separazione esistente tra corpo di fabbrica e copertura in ferro e vetro non mette a nudo un’irrisolta duplicità, una negativa contraddizione, bensì sottolinea, mediante un diverso trattamento linguistico, due parti logicamente differenti dell’edificio. A fronte di tale architettura dalla connotazione fortissima, magari criticabile ma consolidata e risolta, il progetto di “trasformazione” propone un viaggio senza ritorno nel regno dell’anòdino, dove una corriva reinterpretazione del non-luogo genera soltanto una non-architettura. (“Effetto” comprovato dalle inquietanti somiglianze che Milano Centrale presenterebbe con Roma Termini, già sottoposta alla “cura” Tamino).

Non si tratta allora di contrapporre una conservazione a una rivoluzione; il fatto è che quando è compiuta esclusivamente in nome di grandi interessi economici, la “rivoluzione” difficilmente risulta davvero tale, e soprattutto, difficilmente determina qualcosa di diverso da un impoverimento collettivo. Per questo oggi, piuttosto, schierarsi dalla parte dell’architettura, in difesa della sua qualità, vuol dire agire in maniera rivoluzionaria: scomoda e rivoluzionaria. Il che –da un punto di vista progettuale– non si traduce affatto in un immobilismo: piuttosto e preferibilmente in un agire con chiarezza; abbandonando quell’ambiguità dove fioriscono i possibili sospetti. A questi patti, si può perfino arrivare a usare –com’è stato fatto– il Partenone come polveriera o le sale di un palazzo reale come stalle, se le circostanze lo richiedono. Ma non sostenere che ciò costituisce un «progetto vincente».

A chi ne abbia la forza finanziaria non resta dunque che suggerire di trovare il coraggio di progettare una nuova stazione per Milano, se proprio lo si ritiene indispensabile. Ma che sia un’opera qualitativamente degna delle aspirazioni troppe volte mancate di questa città: un’architettura, che sia in grado di svolgere al meglio la sua destinazione funzionale e, se necessario, anche quella vocazione commerciale che oggi le si lega. Senza ambiguità e senza furbizie. Al di fuori di ciò, più che la “cultura architettonica”, è la città a uscire inevitabilmente perdente, sempre che dei suoi destini importi ancora qualcosa a qualcuno.

Anche l’era dei centri commerciali avrà i suoi Pantheon, i suoi Partenoni, i suoi Seagram Buildings. Tra questi –c’è da esserne certi– non ci sarà il Supermarket Milano Centrale.

 

 

 

Il futuro delle stazioni italiane:

un destino ineluttabile?

Francesco Dal Co

 

 

 

“Un caffè, volevo solo un caffè” —no, quello che di solito è semplice qui è complicato. Sei stanco, il viaggio è stato lungo, i bambini hanno sete? Ti accoglie una A maiuscola sfregiata e ti trovi nell’A(sfregiata)utogrill. Il caffè o la bibita te li porgono impiegati vestiti come nel Wyoming; ci si immagina debba essere mascherato e colorato chi svolge il mestiere del banconiere. L’automobile è lì fuori; il problema è raggiungerla. Gli ultimi seguaci del gusto degli allestitori dei negozi di Nova Uta, all’epoca del socialismo reale (ma, questi ultimi non avevano molto da esporre), hanno predisposto per te un lungo corridoio. Sui lati, ammonticchiati, salami e mortadelle, lambrusco e pane secco, occhiali da sole e compact disc, guide e giornali e, alla fine, cioccolatini e gomma da masticare. Poi, finalmente, il viaggio riprende. E’ vero: gli autogrill sono solo i ritagli marginali del mondo dell’autostrada. Ma non sono affatto marginali le nostre stazioni: Termini, Santa Maria Novella, Santa Lucia, sono lì, nel centro di Roma, di Firenze, sul Canal Grande a Venezia —la Stazione Centrale a Milano, conclude uno dei più importanti assi della città: un fondale inquietante, discutibile, imponente; una seria testimonianza per la storia della città, di cui configura un brano irrinunciabile. Anche queste stazioni verranno sottoposte a cure simili a quelle subite, negli ultimi anni, dai luoghi di sosta lungo le autostrade? Vorrei un biglietto per Verona” —no, quello che una volta era ovvio, tra non molto non lo sarà più. Prima di ottenere il biglietto, si dovrà attraversare un souk (nel senso etimologico del termine e senza inflessioni razziste); però, avverte chi lo sta progettando, trattato igienicamente ogni cinque minuti? La Stazione Centrale di Milano è una cosa seria, non solo per chi intende ora ‘valorizzarla”. Per metterci le mani, ci vorrebbe un progetto altrettanto serio, ammesso e non concesso che sia necessario metterci le mani e non sia più augurabile garantire il ricondizionamento dei servizi, un’attenta sorveglianza, un accurato ripristino, insomma: una buona manutenzione (così, ad esempio, hanno fatto nella Grand Central Station di New York: qui nessuno ha neppure pensato di soppalcare la hall o di modificare i percorsi; anzi, si è provveduto a valorizzare tutto ciò che di storico l’edificio offre, comprendendo che anche questo è un valore da mettere a frutto in un Paese che ben conosce —ahimè, Pennsylvania Station docet— che cosa è il mercato). Ma anche per realizzare un accurato ripristino ci vuole un bravo architetto. Se non più bravo, ma certamente dotato di competenze diverse, dovrebbe poi essere il progettista incaricato, addirittura, di ristrutturare la Stazione: un professionista all’altezza, perlomeno, di Ulisse Sfacchini, cui si deve un minimo di riconoscenza per avere costruito la Stazione Centrale, appunto. Ma, dopo aver visto che cosa è accaduto a Roma-Termini (basta osservare la grafica lì utilizzata per orientare il pubblico nel bazar realizzato nella galleria, per comprendere che chi vi ha operato, ha una concezione del progetto assai simile a quella di un cultore del patchwork), che aspettarsi a Milano? Nessuno mette in dubbio la necessità di dare una sistemazione alle nostre stazioni, anzi. E la speranza condivisa è che le nuove stazioni che verranno realizzate risultino rappresentative delle attese e delle necessità di un Paese civile (un esempio di segno opposto a quello che su queste pagine Marco Biraghi commenta, lo si trova in questo stesso numero di “Casabella”). È proprio destino che opere egregie quali quelle costruite, ad esempio, da Stacchini, Michelucci, Mazzoni, Montuori ecc. debbano subire il medesimo trattamento riservato ai nostri aeroporti, veri e propri prototipi di ciò che è ormai senso comune definire junkspaces? Non è detto, e sempre per rimanere in argomento: chi volesse esaminare i progetti presentati da “Casabella» (n. 709, marzo 2003) per la nuova Stazione Alta Velocità di Firenze potrebbe rendersi conto che anche in Italia (e forse più, se si pensa al progetto impostosi nel concorso fiorentino) vi sono architetti, cui varrebbe la pena affidarsi per evitare questo destino.