Da La Repubblica 5 febbraio 2003

 

IL GRANDE CUORE DI NEY YORK

Un simbolo del secolo americano. Ha compiuto novant’anni la Grand Central Station che Paul Morand definì il Palazzo della Partenza. Il più famoso complesso ferroviario del mondo fu costruito per impulso della famiglia Vanderbilt in ben dieci anni

 

di Mario Calabresi

 

Dal 1913 è la spia dello stato di salute di New York, ne segnala in tempo reale i momenti magici e le crisi, le speranze e le paure. A cent’anni dal via all’avveniristico progetto per costruire un «Palazzo della Partenza», come lo definì Paul Morand, e nel giorno del suo novantesimo compleanno, la Grand Central Station sta benissimo. Questa volta meglio della Manhattan chela circonda, ancora ferita dal crollo delle Torri gemelle, dal tonfo degli indici di Wall Street e della fine della piena occupazione degli Anni Novanta. Forse perché simboleggia qualcosa di più profondo: la voglia di resistere, di continuare a vivere, consumare, viaggiare e spendere. Così si spiegano i ristoranti sempre pieni, il mercato gremito e il fiume di folla che attraversa il salone dalla volta stellata. Passa ogni giorno mezzo milione di persone, per partire, fare la spesa, cenare, cercare un regalo, prendere un the, un aperitivo o ritrovare un amico sotto il grande orologio d’ottone a quattro facce.

Accade così dal 3 febbraio del 1913, quando il più grande complesso ferroviario del mondo venne inaugurato. Simbolo dell’audacia, della fiducia nel progresso, celebrazione di una famiglia, i Vanderbilt, e di un’epoca, l’Era americana del Treno. Dieci anni di lavori per dare vita ad una stazione con sessantasette binari disposti su due livelli sotterranei. Trentamila tonnellate d’acciaio, il triplo di quelle usate per elevare la Torre Eiffel.

Per farle spazio, all’incrocio tra la quarantaduesima strada e Park Avenue, furono demoliti duecento edifici su quattro isolati. I camion, nonostante il ritmo di 400 viaggi al giorno, impiegarono cinque anni per spostare la terra e le rocce degli scavi. Una spesa di 43 milioni di dollari, l’equivalente di oltre 750 milioni di dollari di oggi. All’inaugurazione apparve un’immensa stazione salotto, che metteva il viaggiatore e non il treno al centro, che offriva distrazioni, lussi, funzionalità e puntava perfino a ridurre la fatica con rampe inclinate al posto dei gradini.

La facciata in stile Beaux Arts, sovrastata dalle statue di Mercurio — simbolo del commercio e della velocità—, Ercole e Minerva, era la porta di entrata per l’America, si partiva per Chicago, il Canada e il Pacifico. Nel salone delle biglietterie, lungo 114 metri, una volta blu alta quasi quaranta metri con i segni zodiacali che corrono nel verso sbagliato, accoglie i viaggiatori. Intorno 2500 stelle, che si illuminano ogni sera, a simboleggiare l’universo del commercio mondiale con il suo cuore a Manhattan. Una città nella città, tanto da mantenere a lungo il soprannome di «Terminal r City». Tale da creare stupore anche in un giramondo di professione come Paul Morand, diplomatico e narratore francese, che nella primavera del 1929 scriveva: «E’ una stazione questa galleria di pietra levigata illuminata da immensi porticati a vetri e dove circolano tranquillamente viaggiatori senza bagaglio? Ristoranti, bar, farmacisti, parrucchieri, librerie, venditori di grammofoni, c’è di tutto qui, salvo i treni. Nessun fumo acre, niente ossido di carbonio, né morchia, né carbone...».

E’ il biglietto di ingresso in società dei Vanderbilt, la famiglia che l’ha voluta per dare una vera casa alle ferrovie che possedeva. Nonostante le origini olandesi - buon biglietto da visita a Manhattan - e l’ascesa economica iniziata quattro generazioni prima da Cornelius, il «Commodoro», capace di costruire una fortuna sui trasporti marittimi, i Vanderbilt erano ancora considerati dei parvenue. Ma l’immenso terminal, l’Avenue con il loro nome, tra Park e Madison, e i contemporanei alberghi Commodore e Biltmore, segnarono il loro trionfo economico e sociale.

Così un nome diventa un simbolo, si astrae, è capace di diventare un marchio, una «marca». Accadde sempre in quel febbraio di novant’anni fa a Frank Woolworth, padrone di un impero di negozi a basso costo: il grattacielo che ha voluto, 241 metri in stile gotico, la più alta costruzione del mondo fino al 1929, sancisce il trionfo del suo nome, trasformandolo in una «marca». Woolworth, meno smaliziato dei Vanderbilt, lo ammise candidamente: «Ho deciso di costruirlo per farmi pubblicità in tutto il mondo». La trovata definitiva fu l’inaugurazione: da Washington il presidente Wilson accese, con un comando telegrafico, le 8Omila lampadine del Woolworth Building. Il bagliore, raccontarono i giornali, fu visto ad una distanza di cento miglia.

Era la consacrazione del Secolo americano all’alba della Prima guerra mondiale.

Ma non è sempre stata una festa. I tempi bui arrivarono, in perfetta sincronia con le crisi dell’economia e della città. Se ancora nel 1937, un programma radiofonico di immenso successo della Nbc si apriva con parole enfatiche nel descrivere la stazione — «Come una pallottola cerca il suo bersaglio, le rotaie splendenti di ogni parte del Paese puntano alla Grand Central Station, cuore della più gran de città d’America, incrocio di milioni di vite» —  già allora la sua grandezza comincia a subire i primi colpi. La fine del monopolio sui viaggiatori, sancito dal boom delle automobili e dei pullmann, e la Grande Depressione, incrinano l’ottimismo. Fino alla fine degli Anni Cinquanta la ferrovia resiste, anche grazie al collegamento con il porto di NewYork, poi in un decennio, quello del boom del trasporto aereo, perde i due terzi dei suoi passeggeri. Quasi per rappresentare il sorpasso, sulla sua testa nel 1964 viene costruito il grattacielo della Pan Am, oggi Met Life building, che svetta ad interrompere Park Avenue.

La stazione diventa sporca e trascurata. Rischia la demolizione. Sopravvive per miracolo, grazie al sacrificio della sorella e concorrente, Pennsylvania Station. Di due anni più grande — inaugurata nel 1911 — aveva una facciata neoclassica con un gigantesco colonnato di marmo toscano e un interno in vetro e acciaio, slanciato e leggerissimo. Nel 1962 fu deciso di sostituirla per fare posto ad un nuovo e più moderno complesso che contenesse treni, uffici e il Madison Square Garden, destinato a diventare il tempio del basket Nba.

Nonostante tre anni di lotte di architetti, storici e studenti, nel 1965 Pennsylvania viene demolita. Lo shock è grande e spinge a creare una commissione per la tutela degli edifici storici che salva la Grand Central, vincolata come bene artistico Una battaglia che vede in prima Jacqueline Kennedy. Ma neanche la vedova di un presidente può nulla di fronte alla crisi di metà Anni Settanta. Gli ingressi si riempiono di homeless, i viaggiatori devono scavalcarli. Il ristorante più famoso, l’Oyster Bar, perde clienti, di sera è deserto, sta per fallire. Per sopravvivere Grand Central Station ha bisogno di cambiare identità.

Nel 1990 l’Amtrak, la più grande compagnia a lungo raggio, sposta tutto il suo traffico su Penn Station. E’ la fine del grande terminal americano. La fine di un’Era.

Allora cambia pelle, riesce a trasformarsi, diventa la casa dei pendolari, di quei 150mila «commuters» che arrivano ogni mattina a New York dai sobborghi, dal Connecticut, dalle casette a due piani in campagna. Poi Grand Central si ricorda di essere nata come un salotto e torna alle origini: quattro anni di restauri radicali riportano la volta e i marmi, riparati e puliti, a splendere. Tre anni fa vince il premio per il monumento meglio conservato e restaurato d’America. Spuntano 23 tra caffè e ristoranti, cucina italiana, ebraica kosher, cinese, giapponese, giamaicana. Nel market, banchi di frutta, pesce, spezie, formaggi, prosciutti tedeschi, lumache francesi. Negozi di ceramiche, cartoleria, dischi, libri, fiori e orologi. Ci sono ancora i vecchi lucidatori di scarpe a tre dollari e si riparano racchette da tennis. La pulizia è ovunque impressionante, come nel progetto iniziale, figlio di una nascente cultura igienista che fece progettare cent’anni fa «spogliatoi», «saloni di bellezza» e  vasche da bagno». Sulla balconata Jordan apre il suo ristorante di bistecche. Arrivano le star, che lasciano il loro autografo, un po’ macabro, sulle ossa delle costate. Ma dai tavoli il panorama è splendido, la volta stellata, il fiume di folla e una luce calda che accende il marmo. Al resto ci pensano la cura Giuliani della tolleranza zero, un decennio di boom economico e il miracolo di Wall Street.

L’Oyster Bar rinasce invece grazie a Jerome Broody, grande inventore di ristoranti che lo rileva nel 1974. I soffitti coperti di piastrelle in cotto sono cupi e rovinati, i tavoli vuoti e sulle guide turistiche non c’è più traccia di questo indirizzo. Ci vogliono cinque anni per risalire la china. Le tovaglie a scacchi bianchi e rossi tornano a riempirsi e negli Anni Ottanta sull’immenso letto di ghiaccio spiccano le aragoste del Maine e trenta tipi di ostriche. Se ne consumano più di mille dozzine al giorno, accompagnate senza imbarazzi da un boccale di birra, quella rossiccia di Brooldyn. I passeggeri però da novant’anni continuano a cercare un piatto caldo di zuppa di vongole, nelle due versioni della famosa Clam Chowder, quella di Manatthan con il pomodoro e la ricetta originale del New England con il latte. Quella crema squisita, che Ismaele mangia nel Moby Dick di Melville prima di imbarcarsi sulla baleniera. Nel Natale del ‘98, l’ultimo colpo di sfortuna, un incendio brucia tutto, compreso il grande marlin impagliato, ma in poche settimane il ristorante simbolo riapre.

Anche nella mattina di compleanno i pendolari sono un fiume cui sarebbe impresa impossibile cercare di andare controcorrente. Qualche curioso rallenta per riconoscere l’ambiente di un film. Qui hanno girato Hitchcock e De Palma. Il gangster redento Carlito Brigante-Al Pacino, muore poco prima di prendere il treno in Carlito’s way, ma non cercate di ritrovare i dieci minuti degli Intoccabili con la carrozzina che scivola lentamente per lo scalone, omaggio di De Palma a Eisenstein, alla scalinata di Odessa della Corazzata Potemkin. Non cercate Elliott Ness-Kevin Costner, le guide turistiche ingannano, perfino l’omino delle informazioni che siede sotto l’orologio d’ottone ignora la verità: De Palma ha preferito girare alla Union Station di Chicago. Per una volta la Grand Central ha perso.